La bellezza che ospita la ferita - Marco Martinazzo

Alberto Burri, famoso artista informale umbro, negli anni Settanta aveva realizzato alcune opere utilizzando la tecnica del cretto che ricorda le fessurazioni delle terre argillose. Così, alla vista delle macerie di Gibellina, distrutta durante il terremoto avvenuto nella zona del Belìce, nella Sicilia occidentale, nel 1968, a Burri venne l’idea di realizzare uno dei suoi Cretti, questa volta su scala ambientale. Nel 1981 Burri ricopre le rovine della cittadina siciliana con una sorta di grande sudario in cemento. La prima esigenza dell’artista è quella di dimostrare che la memoria è una insistenza spettrale che esige di essere ascoltata e accolta: sembra dire portatemi nella vecchia città, laddove si è consumato il trauma, laddove le macerie a cielo aperto non cessano di evocarne lo spettro. I vicoli bianchi che oggi percorriamo, simili a delle profonde ferite del terreno, sono infatti gli stessi del centro storico del paese prima del terremoto. Secondo Burri un’opera è tale solo se sa dare una forma al vuoto senza forma del reale – se sa organizzarlo. Sicché il lavoro dell’artista procede sempre accostando e non evitando la ferita del reale, l’eccesso senza nome della vita e della morte.

La ferita non può essere rimarginata, guarita, reintegrata. Essa continua a spurgare, non cessa di scriversi, non smette di fare male. La potenza lirica del Cretto di Gibellina risiede in questo: non c’è resurrezione possibile dalla morte, ma l’evento dell’opera d’arte può elevare questa impossibilità. Lo spazio dell’opera ospita il tempo, la materia di cui è fatta invece implica l’offesa del tempo, implica le trasformazioni che l’incidenza del tempo genera nello spazio. Una produzione nel tempo che crea energia nella superficie che diventa evento stesso dell’opera, commemorazione, sudario, lenzuolo, velo che va a custodire l’orrore del trauma. Il Cretto è il cuore melanconico del lavoro del lutto, lavoro della memoria, trattamento dei resti, elevazione della maceria alla dignità dell’opera, cicatrice scritta in modo indelebile sulla vecchia Gibellina.